Ti cucino un racconto
L’insalata della memoria
«Ehi piccola, sali su, che la mamma ti sta aspettando per preparare l’insalata di tartufo insieme a te.»
La voce del mio papà, a differenza della sua immagine sempre più offuscata, mi arriva nitida, dopo aver attraversato indenne quel meandro nebbioso ubicato da qualche parte del mio cervello, che ancora custodisce i ricordi di me bambina.
«Ha cominciato senza di me?» gli chiedevo mentre raccattavo sul largo scalino davanti casa il mio bambolotto di gomma che, dopo un accidentale tonfo nel camino di casa, mostrava una vistosa scottatura a un piede.
Avevo deciso di lasciarla a vista solo quando, dopo averla medicata più e più giorni, avevo constatato che non si rimarginava.
E, immaginando che mia sorella, più grande di me di tre anni, fosse già seduta al tavolo della cucina, afferravo il sacchetto dove avevo riposto in fretta il bambolotto, la sua culletta e una copertina, e scappavo su per le scale, salutando con un gesto distratto della mano mio padre che stava uscendo.
La preparo ancora, l’insalata di tartufo nero, seguendo la ricetta di famiglia, che è poi, con qualche piccola variazione, la stessa in tutta la zona, ricca del famoso tubero.
Non succede spesso, però, che mi cimenti in questa che può sembrare una ricetta come tante altre: lo faccio a Natale, talvolta a Pasqua e in qualche altra rara occasione, e sempre i ricordi fluiscono incontrollati, mentre maneggio con cura la materia prima, che ha segnato il cammino dalla mia infanzia alla giovinezza. Continua a leggere →



Ogni mattina scosto le tende, sapendo che la montagna di fronte è lì imponente, solenne, quasi incombente.
Nell’ultimo loculo della fila, Rosa ci stava ormai da quarantadue anni. Quello subito prima del suo, era rimasto vuoto per un decennio. Era da tutto quel tempo che non parlava più con nessuno e ora che nella nicchia accanto ci avevano tumulato Laura, non aveva esitato un momento a subissarla di domande: «Come è successo? Sei così giovane. È stato un incidente o ti drogavi? Scusami, non volevo insinuare nulla, magari sei una brava ragazza e hai avuto la sfortuna di ammalarti gravemente.»
Mentre il bip bip della macchina, cui era attaccata con alcuni tubicini, scandiva il tempo indolente della stanza d’ospedale, soltanto il movimento rapido dei globi oculari dietro le palpebre faceva intuire che fosse viva. Lei però era vigile, ascoltava quello che dicevano i presenti, capiva il senso delle loro parole, e non aveva potuto fare a meno di ridere tra sé alla battuta del fratello sul numero del suo letto, il 22, che nella Smorfia indica “o’ pazz’ ”. Sì, suo fratello aveva ragione, era stata proprio pazza a non denunciare il suo compagno, quando, a un mese dal matrimonio, si era presentato a casa con un alone di rossetto sul polsino candido e, alle sua pretesa di una spiegazione, aveva risposto schiaffeggiandola fino a scheggiarle un incisivo.


