Stazione dei carabinieri

Stazione dei carabinieri

31 Agosto 2016

Arrivata davanti alla villetta cinta da un’alta inferriata con gli apici a mo’ di frecce appuntite, ricoperte da filo spinato, fui assalita da una sorta di timore reverenziale, del tutto inaspettato.

Prima di allora quel posto non mi aveva mai veramente impressionata, forse perché, oltre il cancello, si vedeva solo un’abitazione anonima, che deludeva le aspettative generate dall’imponente cancellata.

Ero passata da quelle parti innumerevoli volte, domandandomi un po’ incredula come mai, quella costruzione senza pretese, fosse stata convertita a una destinazione d’uso così speciale, senza averne la dignità.

Mentre indugiavo con lo sguardo sulla scritta SUONARE, posta subito sotto l’insegna STAZIONE dei CARABINIERI di… un’ansia sottile s’insinuò sotto la pelle.

Mi avevano convocato senza accennarmene la ragione.

E, benché non avessi smesso per tutto il tempo di cercarne una plausibile, non ero riuscita a trovarne nessuna, per quanto fantasiosa potesse essere.

Pertanto, cosa avrei mai dovuto temere?

Suonai un po’ esitante e dopo alcuni interminabili secondi, una voce al citofono mi pregò di attendere.

Mentre aspettavo che aprissero il cancello, la mia mente, da maestra impareggiabile qual è nel condurre certi giochi, mi catapultò indietro di oltre un ventennio, in una Napoli convulsa che sembrava annegare nel caos più assoluto.

Quando poi, in quello scenario infernale, comparve il volto di Virginia, avvertii prepotente il bisogno di un appiglio, non solo per le gambe molli, ma anche per il cuore che andava a mille.

Mi sarebbe stato di aiuto un muretto o anche un semplice paletto, insomma qualcosa che mi sorreggesse, ma non c’era a portata di mano nulla di tutto ciò.

Era anche severamente vietato appoggiarsi al cancello, perciò cominciai a cullarmi in un dondolio ritmico, spostando il perso del corpo da un piede all’altro, che bilanciò in parte il senso di sbandamento in cui annaspavo.

Intanto, ignara di chi o cosa l’avesse evocato, il ricordo degli anni vissuti a Napoli da studentessa universitaria, scorreva davanti ai miei occhi come un film.

Ero arrivata in città da un paesino di montagna nei primi anni 80 e non ero riuscita ad abituarmi alla frenesia di quella metropoli caotica e assordante, che mi metteva di continuo di fronte a piccole o grandi scelte, da dover valutare in fretta. Dopo un anno e tre esami superati con ottimi voti, conobbi Virginia.

Capitate una di fianco all’altra a una lezione di Genetica, mi aveva chiesto bisbigliando: “A che punto del programma sei? – senza attendere la mia risposta, aveva aggiunto – che ne pensi se studiassimo insieme?” Per poi passare alle presentazioni: “Mi chiamo Virginia e abito ai quattro palazzi. Potremmo vederci da me, senza doverci cercare ogni giorno un posto in queste aule.” Ebbi il sospetto che mi avesse tenuta d’occhio: io infatti studiavo spesso su quei banchi.

Quando mi girai a guardarla, benché l’avessi già notata per la sua figura sottile e la cascata di capelli mori e ricci che le contornavano il viso minuto, fui rapita dal suo sorriso accattivante e dalla luce che le illuminava gli occhi grandi, scuri e buoni. E, senza pensarci su due volte, le risposi che per me andava bene e potevamo iniziare già l’indomani.

Quanto tempo fosse passato, prima che mi raggiungesse al cancello un giovane carabiniere per scortarmi dal Maresciallo, non fui capace di quantizzarlo.

Si sa però che i ricordi scorrono velocissimi, contraendo il vissuto di ore, giorni e persino anni in pochi minuti, facendo rivivere gioia e dolore del tempo che fu a una velocità da moviola impazzita.

Quel flusso di ricordi che, con l’arrivo del carabiniere, era stato interrotto bruscamente, andò in standby. Come mi fu chiaro solo più tardi, al primo spiraglio, avrebbe ripreso con una certa ostinazione la sua incomprensibile missione.

Quindi, tornata al presente, seguii il militare, ancora un po’ frastornata da quei potenti flashback.

Lungo il tragitto che si snodavate tra scale ripide e stretti corridoi, l’ansia aumentò, lasciando poco spazio a una pur pressante curiosità.

Arrivati in fondo a quella specie di labirinto ci fermammo sulla soglia di una stanza spartana, occupata da tre scrivanie disposte a triangolo equilatero.

«Buongiorno signora, prego si accomodi.» mi disse con una certa cordialità il Maresciallo, indicandomi la sedia di fronte.

Non avevo fatto in tempo a trovare una posizione stabile sulla scivolosa poltroncina di plastica che mi era toccata, quando mi allungò la fotocopia di un biglietto poco più grande di un post–it che, stropicciato com’era all’origine, non si decifrava immediatamente.

Feci l’inutile gesto di distenderlo con mani un po’ tremanti, che – sorpresa! – comparve il mio nome e il numero del mio cellulare.

Non so come possono accadere certi salti temporali, ma mentre il Maresciallo mi parlava, io ero tornata al giorno in cui, come stabilito, raggiunsi Virginia in piazza Nicola Amore, dove viveva con i genitori. Era figlia unica e la sua stanza era grande e accogliente, molto diversa dalla mia buia e sovraffollata.

«È la sua scrittura? – feci cenno di sì – si ricorda a chi ha dato questo foglietto?» mi stava intanto chiedendo il Maresciallo.

« Sono poche le persone a cui si scrive il proprio numero su di un pezzo di carta, di solito è l’interessato a registrarlo direttamente sul suo cellulare – dissi prendendo tempo – in questo momento però non saprei cosa dirle, devo fare mente locale.» conclusi, non del tutto presente a me stessa.

E, mentre mi chiedevo che importanza potesse avere a chi avevo dato il mio numero, ero già tornata indietro, a Napoli e al tempo in cui studiavo con Virginia.

Mi ricordai che sua madre allo scadere di ogni ora ci portava da bere e da mangiare, facendoci ingurgitare calorie più utili a uno scaricatore di porto.

Come è facile immaginare, mi abituai subito a tanto confort. Mi sentivo come miracolata. L’incontro con Virginia aveva di fatto azzerato il senso di spaesamento che, in poco più di un anno vissuto in città, non ero riuscita a neutralizzare. Ormai tornavo nel mio appartamento, dove vivevo con altre otto ragazze, tre per camera, solo a sera inoltrata: non sentivo più il peso della mancanza di privacy e di un posto tranquillo dove studiare, dei turni per lavarmi e cucinare.

Mentre la mia mente era impegnata a riportare a galla immagini di quel tempo lontano, il carabiniere seduto alla scrivania alla mia destra, come per telepatia, rispose alla domanda che mi ero posta poco prima, senza però tradurla in parole:

«Il suo numero di cellulare era in possesso di una persona rinvenuta in uno stabile alla periferia della Capitale, a cui non si riesce a dare un’identità. – fece una pausa a effetto e ricominciò – È una donna all’incirca della sua età che nessuno cerca, né viva, né morta. Custodiva il suo numero di telefono nel medaglione di una collanina di oro antico.

Come se avessi sfiorato la tastiera di un computer immaginario che, con un flebile clic, aveva scalato all’indietro ben due decenni, mi ritrovai nei pressi di Piazza Garibaldi, in un mercatino delle pulci dove, Virginia e io, avevamo comprato due catenine di oro antico.

Erano davvero belle, molto simili tra loro e in ottimo stato.

A quel tempo studiavamo insieme già da un po’. Avevamo preparato il primo esame con determinazione, per poi andare avanti come un treno, un esame dopo l’altro, sempre pronte a sostenerci a vicenda.

«Signor Maresciallo,– dissi con una certa cautela – sia il biglietto che la collanina con medaglione, mi fanno pensare che la donna di cui mi sta parlando sia Virginia Del Giudice, mia amica dai tempi dell’università. L’ho rivista due estati fa, dopo circa vent’anni. Me la ritrovai sulla porta di casa senza preavviso. Non avrebbe, comunque, potuto avvertirmi del suo arrivo, poiché, nel frattempo avevo cambiato più volte il mio numero di cellulare e mi era stato impossibile farglielo avere, visto che, né io né la sua famiglia, sapevamo dove fosse e come metterci in contatto con lei.»

Aggiunsi anche che, quando le aprii la porta, faticai a riconoscerla, non tanto perché era l’ultima persona che mi aspettavo di trovarmi davanti, ma perché era molto diversa da come la ricordavo. Quel suo fisico che era stato un inno alla bellezza e alla vita, aveva perso smalto. Era ormai solo una piantina battuta da forti intemperie, arresasi all’incapacità di contrastarle.

Insistetti perché restasse da me per un po’ di tempo, ma dopo pochi giorni se ne andò così com’ era arrivata e non la rividi né sentii più.

Intanto era entrato un secondo carabiniere che recava con sé una cartellina. La consegnò al Maresciallo, il quale, dopo averla aperta, spinse sotto i miei occhi la foto di una catenina d’oro: era quella di Virginia, non ebbi dubbi.

Per non lasciarmi sopraffare dallo sconforto più totale, mi attaccai alla possibilità che l’avesse persa o gliel’avessero rubata, benché non valesse quasi nulla.

Fui all’improvviso di nuovo ricacciata indietro nel tempo, a quando ci scambiammo le collanine più e più volte per stabilire come dividercele. Quando infine toccò a lei sceglierne a caso una delle due che tenevo chiusa in un pugno, cominciammo a ridere a crepapelle.

Il giorno successivo, per suggellare la nostra amicizia, scrivemmo, ognuno per proprio conto e in gran segreto, un pensiero dedicato all’altra.

Sigillammo poi i due foglietti, come fossero una sorta di testamento, e ce li scambiammo, per richiuderli con una certa solennità ognuna nel proprio medaglione. Giurammo poi di leggerli solo quando si fosse presentata una vera necessità.

Man mano che trascorrevo più tempo con lei, divenne evidente che oltre a essere tenace era anche brillante. A testimoniarlo c’erano i suoi voti, quasi sempre più alti di uno o due punti rispetto ai miei. A ogni esame si scusava per quella costante sui suoi risultati che si ripeteva come un mantra, anche se io non ci facevo più caso da tempo.

Con l’esame di Genetica, il primo studiato insieme e che rappresentava per la stragrande maggioranza degli studenti di Scienze Biologiche uno scoglio insormontabile, superato da me con un favoloso 30 e lode, mentre lei si era dovuta accontentare ( si fa per dire) di 27, avevo azzerato in partenza qualsiasi disparità di voto tra noi avessi subito in futuro.

Mentre ancora fissavo quella foto, il Maresciallo lasciò che ce ne scivolasse sopra un’altra: all’immagine della catenina si sovrappose all’istante il volto di una donna bionda dai tratti nordici, inequivocabilmente morta.

Sentii il respiro farsi affannoso, inspirai profondamente più volte, ma mi resi conto di aver recuperato un sufficiente apporto di ossigeno solo quando la mia voce esplose incontrollata: «Non è Virginia – gridai – lei è bruna, ha il profilo greco e i capelli ricci.»

« Sicura? La signora della foto non le ricorda nessuno?» insistette il Maresciallo.

Non mi ricordava nessuno e tantomeno Virginia – pensai sollevata.

Per prolungare la sensazione di scampato pericolo evocai il periodo di grande appagamento che seguì la sua e la mia laurea. La festa per il suo diploma, fu suggestiva, anche per la cornice di una Napoli pittoresca.

Per festeggiare il mio venne al paese. Fu rapita dal borgo e dalle montagne che lo circondavano e mi confidò che le sarebbe piaciuto molto vivere in un posto simile.

Dopo di allora non ci sentimmo per circa vent’anni, benché la cercassi a scadenze regolari. Telefonavo ai genitori per sapere se avessero sue notizie, ma erano più spesso loro a chiamarmi sperando che si fosse messa in contatto con me.

Fu subito dopo la sua sparizione, quando ebbi paura che non tornasse più, che lessi il suo messaggio chiuso nel mio medaglione e che recitava: “Sei la sorella che non speravo ormai di incontrare più.” Oltre a commuovermi, ci rintracciai una velata richiesta di aiuto.

Per te ci sarò sempre.” Era stato il messaggio mio per lei: la risposta inconsapevole alla sua richiesta di aiuto.

E, alla luce di quello che apprendevo in quel momento, lei lo aveva sostituito con il post– it con il numero per contattarmi, che le avevo dato due anni prima.

Credo lo avesse infilato nel medaglione sapendo che prima o poi avrebbe avuto bisogno di qualcuno e aveva scelto di chiamare o far chiamare me.

Dopo qualche anno dalla sua scomparsa, mi sposai per separarmi quasi subito. Tornai a vivere nella casa di famiglia, dove anni prima Virginia era venuta a trovarmi.

Non smisi mai di pensare a lei, ma era un ricordo che la sua assenza prolungata tendeva a sbiadire sempre più.

I fatti di quella mattina mi avevano scosso nel profondo. Averla creduta morta, anche se solo per qualche minuto, mi aveva messo addosso la smania di andare subito fuori dalla Caserma.

Quindi salutai in fretta e mi avviai all’uscita, preceduta dallo stesso carabiniere che mi aveva fatto strada all’entrata.

Quando il cancello si richiuse alle mie spalle, liberai tutta la tensione accumulata fino a quel momento, prorompendo in un pianto dirotto.

Ciò che invece mi restò incollato alla pelle come un abito mai svestito, fu il ricordo di Virginia.

Mentre mettevo più strada possibile tra me e la Stazione dei Carabinieri, mi rimbombava in testa la sua voce, che raccontava di avere scoperto di essere stata adottata. Era successo due anni prima, quando era ricomparsa senza preavviso nella mia vita. “Non ci vuole certo una laurea in Scienze Biologiche, per capire che se hai un gruppo sanguigno completamente diverso dai tuoi genitori, non sei figlia loro. Non sono neppure Italiana, sono Bulgara, mi hanno infine confessato i miei – mi rivelò sconsolata, per poi concludere con una nota di rassegnazione – La mia vita è stata tutta una bugia.”

Come non bastasse, aggiunse che, quando anche Marco, con cui era fidanzata dai tempi del Liceo, l’aveva lasciata per un’altra, la sua stabilità, già messa a dura prova da una forte crisi identitaria, ebbe un crollo che la portò sull’orlo della follia.

Da quel momento cominciò a soffrire di una grave depressione, che rifiutò di curare perché – mi disse – i farmaci la facevano sentire confusa e quasi inabile in tutto.

Voleva restare presente a sé stessa, costasse quel che costasse. – mi precisò.

Non potei fare a meno, a quel punto, di chiederle come mai avesse deciso di tagliare i ponti con il passato, lasciando fuori chiunque ne avesse fatto parte, me compresa.

Mi è sembrata l’unica cosa da fare per poter iniziare una nuova vita da qualche altra parte.” rispose, mentre una smorfia di dolore le alterava i lineamenti.

Dalle notizie avute in Caserma, sapevo che il solo filo che l’aveva tenuta legata al passato in tutti quegli anni era rimasto chiuso nel medaglione di una collanina che ora non aveva più con sé.

Dove fosse, cosa facesse, restava un mistero. Non sapevo neppure se fosse ancora viva.

E mentre mi si stringeva il cuore, immaginandola chissà dove, ancora in balia del suo male di vivere o magari finalmente in pace con sé stessa, ripresi a sperare di ritrovarla, un giorno, ad aspettarmi sulla soglia di casa.