La montagna di fronte di Rosaria Patrone

Ogni mattina scosto le tende, sapendo che la montagna di fronte è lì imponente, solenne, quasi incombente.  

  Da qualche giorno, però, mentre indugio dietro al vetro per intercettare lungo le sue coste le avvisaglie della primavera, fulmineo si insinua il pensiero che presto andrò via da qui, ed è allora che i suoi contorni, come per incanto, sfumano sotto una nebbia spessa, calata dalla vetta.   

  Resto a fissare quell’assenza come farebbe un pittore che, cosparsa con la cementite la tela di un suo dipinto, cerca di rintracciare sulla trama sbiancata la memoria di una vecchia pennellata, da cui ripartire per un progetto nuovo.   

  Che non avrei potuto portarla con me, lo avevo sempre saputo, come sapevo che prima o poi me ne sarei andata da qui, dove ero arrivata cinque anni prima, dal centro storico del paese.

   L’appartamento era nuovo, lo avevo arredato con gusto, ma il pezzo forte della casa restava la montagna di fronte.

  Era stata testimone del sentimento di solitudine che aveva preso residenza tra queste mura con il mio arrivo, e che neppure il rientro a fine settimana alterni del mio compagno trasfertista era riuscito a mitigare.

  Credo abbia capito quasi subito, osservando la mia quotidianità da una prospettiva privilegiata, quale fragilità insidiasse la mia vita di coppia.

  E ora mi rimprovera per aver lasciato che un’inerzia ingiustificata si sostituisse alla mia ben nota determinazione, impedendomi di intercettarla in tempo, quella fragilità.

   Mi giustifico sostenendo che il tempo di un weekend non era sufficiente, per discutere con lui del mio scontento, della distanza che cresceva tra noi e di cui sembrava non accorgersi.

   Avevo infatti pianificato più volte, nell’arco di un anno, di parlargli, ma all’ultimo momento rimandavo a tempi migliori, non immaginando che, quando quel tempo sarebbe arrivato, non avrei più potuto farlo.

   Dall’alto della sua mole e di una presunta saggezza, mi rinfaccia di aver mancato l’occasione di dare una svolta vera alla mia vita, impedendo così a un destino ingrato di agire subdolamente.  

   Sembra quasi deridermi, quando a bassa voce prende a canticchiare: “Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà…” 

All’inizio, penso a un motivetto inventato lì per lì. Poi, però, mi accorgo che quella canzone non mi è nuova e che non solo conosco il testo, ma anche il titolo: Eskimo, di Francesco Guccini.     

 Mi ha punta sul vivo, e quindi obietto che non può capire le dinamiche che portano gli uomini a farsi del male, perché appartiene a un altro mondo, immune da conflitti di questo genere.

   Cerco anche di spiegarle che sposarmi mi era parso il solo rimedio a una solitudine che, credo, fosse nata con me: quando avevo cercato il momento in cui si era insediata nella mia vita, ero dovuta andare così indietro che la memoria si era persa nell’età dell’amnesia infantile.

     Non ero mai riuscita a neutralizzarla del tutto, eppure ci avevo provato più volte e con convinzione, a cercare un compagno che riempisse quel vuoto, ma il risultato era sempre stato lo stesso: la condanna all’incomunicabilità.   

     Ed ecco che lei si attacca a questa mia analisi, per scavarmi dentro con domande del tipo: “Perché hai creduto che con lui potesse essere diverso? Perché sposarlo, se non avevi mai creduto nel matrimonio?”

     Sa come mettermi in crisi. In effetti non so rispondere a nessuna delle due domande: credo di averlo fatto per stanchezza, una sfida al tempo che volava via e che mi prospettava una vecchiaia in completa solitudine.

     E poi lui, quando ci eravamo messi insieme, forse intuendo cosa mi tormentasse, mi aveva detto una frase che gira ancora ora nella mia testa: non ti lascerò mai, e io su quelle parole, come un’adolescente, avevo ipotecato il mio futuro.

    Da quel momento in poi, infatti, avevo iniziato a percepire il tempo in modo diverso; ero passata dall’assenza di futuro, a immaginarlo – un futuro.

    Poi il peso di un’esistenza sempre più opprimente, dove la sua presenza era sfumata fino a scomparire, mi aveva catapultato indietro, a un futuro inimmaginabile.

   “ Ed è per questo che il tuo tempo senza domani è diventato soltanto un accumulare giorni, mesi, anni, ma anche albe attese per ore e incontri mancati – esclama – e allo stesso modo mi spiego anche quel tuo sguardo distante sull’avvicendarsi di disastri naturali, attacchi terroristici, migrazioni di massa, veloci cambi di governo e epidemie. Come se tutto fosse inevitabile, come se questi eventi facessero da perfetto corollario al tuo fallimento.”

      Non so perché insista nel mettere il dito nella piaga, quale vantaggio pensa di ottenere, facendomi perdere le staffe?

     Questa volta, però, non le rispondo. Lascio che ci arrivi da sola: che si arrangi, una volta tanto.

 Le ricordo che ammazzo il tempo soprattutto leggendo, che da sempre la lettura è il mio solo antidoto alla solitudine.

      “Vuoi che parliamo dei libri? Eccoti servita! –  mi sfida –  Come ti spieghi che ti portava tutti quei libri, ogni volta che tornava a casa? Ti chiamava anche per chiederti se stava prendendo i titoli giusti. Per lui ne comprava uno, per te invece due, a volte tre, ma è capitato anche che dello stesso autore ne prendesse addirittura quattro. Hai mai pensato che avesse capito che era il solo modo per tenerti buona, per non farti arrivare mai a quel discorsetto che avevi in mente di fargli?”

     Un tintinnio di biglie cascate sul pavimento, che echeggia improvviso dal piano di sopra, ci distoglie dal nostro battibeccare. Un’occasione che lei sfrutta per cambiare argomento, o solo girarci intorno: mi chiede se mi sono accorta che la pettegola del piano di sopra mi guarda in modo strano, come se sapesse della lettera dell’avvocato arrivata tre settimane fa.

     Non può saperlo.

Anche se è così allenata a sorvegliare le persone del palazzo, e me in particolare, perché ancora non riesce a inquadrarmi in una tipologia ben precisa di donna, che può avere intuito uno stravolgimento nella mia vita.

A pensarci bene, quando alcuni giorni fa ci siamo trovate ad aspettare l’ascensore, si è lamentata che da quando il marito è in cassa integrazione le sta sempre tra i piedi, e lei non riesce più a fare tutte le cose che faceva prima. A questo proposito ha sfoggiato un inedito talento teatrale, declamando un adagio nel nostro dialetto, che non conoscevo: “meglio nu malu juornu che nu marito semp’ attuorno”, aggiungendo con un sorrisino ironico “beata te, che lo vedi ogni morte di Papa”.

Sono ancora indispettita per il modo ignobile con cui ha voluto farmi sapere di essere al corrente che lui non torna a casa da tempo.  

  Anche la montagna sembra indispettirsi, ma non commenta, lascia che cali un silenzio imbarazzato tra noi, anche se l’argomento lettera dell’avvocato è ormai sul tavolo e, come uno stratega di lungo corso, sento che è pronta a utilizzarlo per puntare al mio fianco.

   Lo squillo del telefono mi salva momentaneamente dal suo attacco, ma decido di non rispondere perché il numero non è in rubrica.

   Torno dietro al vetro del balcone a scrutarla, a misurarmi con lei, ma subisco il fascino della sua apparente indolenza, di quello svettare verso il cielo che mi costringe ad alzare la testa per trovare il punto in cui lo sfiora, di quel suo puntuale vestirsi e svestirsi a seconda delle stagioni, della sua eternità, in fortissimo contrasto con la transitorietà dell’uomo.  

    Non c’è metro di paragone tra noi: io piccola, insicura, senza punti di riferimento, esposta  alle intemperie della vita e in continua lotta con mulini a vento, di cui lei non immagina neppure l’esistenza, scompaio al suo cospetto.

   Mi osserva a sua volta, non parla, e io mi illudo che sulla storia della lettera voglia graziarmi. E in effetti interpreto il suo silenzio come una forma di compassione per me, nonostante sappia che la pietà è un sentimento che non reggo, e che la preferisco di gran lunga quando si accanisce contro di me.  

Come se mi avesse letto nel pensiero, torna subito a rigirare il coltello nella piaga con una domanda che mi spiazza: “La lettera del suo avvocato, l’avevi messa in conto o è stata una sorpresa?”

   Devo confessarle che è stata una vera sorpresa, anche se una sua reazione a ciò che gli avevo urlato al telefono era prevedibile. Qualche mese prima, infatti, mi aveva comunicato che non sarebbe tornato neppure quel fine settimana, e io lo avevo aggredito: “Questo modo di vivere non mi piace, non era questo che mi aspettavo dal nostro matrimonio.”

Parole incontrollate che avevano scalfito le sue sicurezze.

    Non era così che avevo pensato di parlargli, e quello che era scritto nella lettera del suo avvocato non era la risposta che mi aspettavo: Separazione giudiziale.

     A questo punto, lei mi rivela che da quando l’ho ricevuta non riesce a fare a meno di pensarci. Allora l’avevamo letta insieme, e non ci eravamo scambiate nessuna considerazione a riguardo, né lo avevamo fatto dopo. Ora che ha deciso di dirmi la sua, usa una certa cautela: parte da lontano, per spiegarmi che a volte gli uomini – pur di non accollarsi responsabilità – fuggono dalla scena in modo vile, evitando il confronto per paura di essere smascherati.

   “Questo suo atteggiamento di lesa maestà è uno scudo – mi dice con tono consolatorio – che non lo metterà al riparo dalle sofferenze che una separazione comporta.”

     A volte penso che lei sia un vero portento: mi guarda in faccia tutti i giorni, discute con schiettezza di argomenti tanto personali e prende parte alla mia vita, alle mie sofferenze, con partecipazione.

  A pensarci bene, credo che sia una sorta di alter ego, un’altra me a cui non ho imprestato solo gli occhi, ma anche la coscienza. E se il suo giudizio sulle mie scelte di vita è sempre pungente, devo averle pure instillato la mia vena critica che, quando vuole, sa essere spietata.

   E mentre sono assorta in questa riflessione, mentre cerco di capire come avvengono certi transfert, bussano alla porta. Esito, mentre un brivido mi corre lungo la schiena. La guardo, mi guarda, e sembra dirmi: devi aprire!

Le obbedisco e mi trovo di fronte due carabinieri, che mi chiedono di entrare.

     C’è stato un brutto incidente sul cantiere dove lavora suo marito, ci dispiace molto signora, lui non ce l’ha fatta.

      Quello che ha parlato, il più anziano, mi mette una mano sulla spalla, indugia solo un attimo, poi la toglie. L’altro sembra di marmo. 

     Vorrei restare sola, dico con un filo di voce e, senza guardarli, spalanco la porta che era rimasta   accostata.  

     La richiudo alle loro spalle lentamente e, in un silenzio irreale, torno a guardare la montagna, mentre le lacrime mi rigano il volto.

      Questa volta lei non sa proprio cosa dirmi, ma credo si prepari a fulminarmi con una delle sue frasi definitive, del tipo: “È soltanto la Morte che stai piangendo, lui lo avevi già lasciato andare tempo fa.”