Sintesi critica di Antonio Cella

Fonte www.palazzotenta39.it

A partire dalla copertina del libro (incipit artistico del romanzo) occupata, per un terzo, da una figura di donna dall’aspetto allucinato, ambiguo e intrigante (quasi cattivo, direi), che si riflette in uno specchio scuro, ferito da un oggetto contundente o, quantomeno, da un colpo di arma da fuoco, che nella sofferenza esprime un senso di rabbia e al tempo stesso un compiacimento, proprio di chi ha appena portato a termine, con soddisfazione, con perfida determinazione un reato, un atto illecito, che solo una mente malata di delirio di possesso, di gelosia, può commettere, il romanzo di Rosaria Patrone si presenta così al lettore, con un pathos che non lascia spazio alla pausa.

La vicenda, nasce a Napoli e muore a Napoli. Bagnoli, indicato coll’anemico sostantivo di “borgo” (che peccato!), per la protagonista della narrazione rappresenta soltanto il rifugio nel ventre materno, dopo la fine della sua relazione sentimentale con Andrea, attempato professore universitario, ideatore, tra l’altro, di piacevoli momenti di “caccia al tesoro” da cui, come da uno scavo di antichi reperti etruschi, venivano portati alla luce preziosi regali per la gentile convivente: biglietti di viaggio aereo nella lontana Africa, libri di famosi autori napoletani in auge nella seconda metà del secolo scorso e inviti ad incantevoli serate da vivere nella società opulenta e colta della città partenopea.

Circa un quarto di secolo, dunque, vissuto tra la borghesia colta ed impegnata in cui lei, forte della sua iperbole intellettuale, la cui  scaturigine dilagava in fortunati approcci in ambito letterario e nel conseguimento di una laurea in discipline biologiche e scientifiche, che cementavano intellettualmente ancor di più la fortunata convivenza con un uomo che, forse, (ed è questa la pecca di Silvia) considerava la stessa più come un cimelio, una conquista da presentare nelle serate vissute nella Napoli che contava, che come soggetto di diritto, come persona fisica con cui spartire sani sentimenti amorosi.

Nel frattempo, prima di calarmi nelle vicende che hanno edificato la nascita della storia che, forma oggetto della presentazione di cui trattasi, vi cito in rapida parata, i nomi dei personaggi che il lettore incontrerà nell’esordio editoriale di Rosaria Patrone: Silvia Zontini, Andrea Bonetti e Monica Maresca, sono i nomi degli attori che solitamente sui cartelloni cinematografici sono impressi in caratteri cubitali e rappresentano la spina dorsale del romanzo. Seguono: Anna, l’amica del borgo, Stefano Calabrese, l’avvocato, Carmine Maresca e signora, camorristi che operavano nella zona di Marano, Mario, Lorenzo e Luca, rispettivamente fratello, cognato e  nipote di Silvia, e, infine, Diego e Lucio, killer all’occorrenza, affiliati al clan dei Maresca.

La penna di Rosaria, cui va ancora una volta il mio plauso, è una “penna” che si esprime in uno stile essenziale e snello, spesso trascinante, che comunque si piega duttile alle varie esigenze narrative. Silvia era una ragazza che credeva nell’amore e nella fedeltà dell’uomo che amava. Era, come dire?, una naif dell’ars amandi; a lei bastava una carezza, un sorriso, un invito alla visita di un museo oppure la partecipazione alla proiezione cinematografica di un film in compagnia del suo uomo per sentirsi, più che mai, avvolta in un’atmosfera di affetto, di intimità, di essenzialità, che ne rafforzava il ruolo di donna e amante, ritenuto (ingenuamente) elemento imprescindibile di un nucleo famigliare ormai consolidato da un lungo e tranquillo rapporto temporale.

Silvia non aveva amato altri uomini prima di Andrea. Era stata presa da un fremito amoroso soltanto quando, nell’incanto estivo della sua verde Irpinia, si lasciava trascinare dalla melodia di un giovane chitarrista che, una volta all’anno, raccoglieva intorno a sé nello scenario di una notte di luna quegli amici che, come gli uccelli migratori a primavera, si riunivano allineati sui secolari ma inveterati scalini dei vicoli della Giudecca, dopo aver svernato in città caotiche come Roma, Firenze e Milano per dare sfogo nel canto agli aneliti della loro gioventù. Poi, la convivenza col prof. che le aveva rapito il cuore annulla la magia della spensierata gioventù ponendola di fronte all’amara realtà della “vita coniugale” con tutto il suo carico di sospiri di gioia, di tranquillità, di delusioni, di pentimenti e di dubbi, senza darle il vigore, la forza di affrontare la situazione di petto per sradicare le cause che stavano minando alla base un menagesentimentale sereno, di cui si fidava ciecamente.

E arriva finalmente il giorno in cui Silvia si sveglia da quell’annoso letargo.

” Per oltre un ventennio”, racconta,   “si era dissetata alla stessa amata fonte, senza mai dubitare  che la purezza di quell’acqua che sgorgava limpida e trasparente potesse essere inquinata da microrganismi dalla esacerbata virulenza. Ora sapeva che in tutto quel tempo la carica microbica, rimasta al confine della deflagrazione del morbo annidata in fondo alla parte buia di Andrea, avrebbe trovato la miccia specifica nella persona di Monica, amante di Andrea, per innescare un’esplosione di inaudita velenosità. Era stata la sorpresa e la portata devastante dello sconosciuto germe a obbligarla a cercare, anche in se stessa, il focus tossico. Immaginava di possederne uno a sua volta, anche se evidentemente ben nascosto da non riuscire a trovarlo. Sapeva, tuttavia, che c’era: se non succeduto come patologia a trasmissione genetica, arrivato per contagio da chi l’aveva manifestato in modo tanto improvviso quanto clamoroso. E questo l’atterriva.”

solo-una-storia-privata-2Nel rituale amoroso e riproduttivo delle api, quando il fugo ha assolto il suo compito con l’ape regina, viene immancabilmente soppresso dalla stessa. Nel romanzo di Rosaria, il paradigma della soppressione s’inverte. Questa volta è il fugo a tentar di far fuori la regina, nonostante avesse ricevuto, per molti lustri, da “sua maestà” non soltanto la clemenza di sopravvivere dopo l’accoppiamento, ma: calore, accoglienza nella sua magione, amore e dedizione incondizionata ai suoi voleri e ai suoi piaceri, ricevendo, infine, è non è cosa da poco, la grazia della vita da scontare sine die in un carcere dorato. Qualcuno direbbe: anche i fughi nel loro piccolo sanno tradire, nonostante insettucoli ignoranti e non professori di chimica di un prestigioso istituto universitario.

Di quale alchimia l’audace prof. si è servito per liberarsi della regina? Io credo che la formula di cui Andrea si è servito per l’abbisogna è quella del molibdeno: MO42, fortemente tossico per l’organismo umano, dove MO sta per Monica Maresca.

Monica, però, non agisce da sola. Si serve dell’ausilio dell’amico Diego, giovane di malaffare (innamoratissimo della donna) per portare a termine l’annientamento di Silvia. Ma il destino, però, non si mostra tanto maligno nei suoi confronti: la lascia vivere. Vuole che viva perché possa assistere, a sua volta, non per rivincita, naturalmente, agli spasmi di dolore del suo ex amante, rivenienti dal rammarico, dalla tristezza e dal rimorso del consapevole errore commesso.

La storia locale, scevra di pedanteria scientifica, è un luogo antropologico dove ciascuno si appropria di spazi umani, con i mezzi di cui meglio conosce l’uso, come il racconto, la memorizzazione, la leggenda, la tradizione e, ahimè!, l’inciucio, i quali, se non sempre allignano nel dato storico puro, rappresentano almeno la storia di un popolo. Quando, poi, l’attenzione viene rivolta ai dialetti della storia, cioè a tutte quelle smagliature che si sgranano nel tessuto del vivere quotidiano, allora il racconto si tinge di autobiografia (come credo in questo caso), di personale lettura, configurandosi come proposta esistenziale o ermeneutica della vita. In questo contesto, il racconto di Rosaria ripropone fatti e misfatti popolari di una megalopoli come Napoli e, in parte, anche di uno scorcio di un luogo tra i più caratteristici dell’Alta Valle del Calore: la nostra Bagnoli (il Borgo).

Il trasporto amoroso verso la città di Napoli l’ho vissuto anche io: mi ha ospitato per ben trentacinque anni. Città severa e insieme amorosa, che nel romanzo di Rosaria Patrone viene letta nel buio notturno, nella fragorosa luce del giorno, nei meandri grotteschi di aspetti ambigui dove, inconsciamente, mette l’una di fronte all’altra due caratteristiche della metropoli campana: la napoletanità e la napoletanitudine, sommandole in un autentico trasporto amoroso. E il suo pensiero, a volte, si sintetizza in periodi brevissimi, pervasi d’intensa musicalità, come a volerne assecondare i più riposti palpiti della speranza. E, specie di notte, nel suo silenzioso incanto, può infondere una dolcezza meditativa che induce a ignorare il corrosivo processo dell’incuria, della disattenzione degli uomini e dell’insistente vocazione alla distruzione. Così la città viene vista nel suo giogo più veritiero di contraddizioni e ambivalenze, nella triplicità di un singolare intreccio tra plebea spudoratezza, arbitrarietà camorristica e severa, solenne, nobiltà.

Ed è proprio la camorra a segnare il ritorno di Silvia nel paese nativo. Sì, la camorra. Silenziosa come la notte, quasi inapparente, in amalgama con la fine di un lungo sodalizio pseudo-matrimoniale oramai distrutto, dà la spinta propulsiva all’addio a quella Napoli che aveva lasciato nella mente e nel cuore di Silvia un mesto disincanto. Un abbandono forzato, nato dalla volontà ferrea di una ventenne attraente di appropriarsi della vita di un uomo non suo che, verosimilmente, di uomo aveva poco o niente (un quaqquaraqquà cattedratico) se si tiene conto che mai nella loro convivenza, per mera vigliaccheria, l’ipotetico uomo si sia erto a difensore della propria donna, da cui aveva ricevuto soltanto amore sincero, sottoponendola a prove di forza inenarrabili, avvolgendola in un agguato di camorra quasi mortale e sottoponendola quotidianamente ad oltraggi ed insulti verbali da parte della sua amante, potenziale assassina, che facevano più male dei colpi di pistola sparati dai sodali di quella cricca camorristica agli ordini del genitore della stessa.

Questa storia, in buona sostanza, ci fa capire che non basta un quarto di secolo di convivenza ad una coppia di amanti per accordare credito alla fiducia e, comunque, si deve sempre guardare avanti per evitare le insidie e aprire le braccia al futuro che, come esperienza insegna, non è mai peggiore di ciò che ci lasciamo alle spalle.

E quando l’amore muore, lasciamolo al suo destino: è inutile trasportare per il resto della vita il funerale di un matrimonio.

La prosa che ne deriva dal lavoro di Rosaria si connota di una qualità interpretativa e analitica assai particolare, alternando all’agile spessore descrittivo quello più intimamente induttivo, sempre al fine di stabilire collocamenti utili ad illuminare il lettore.

Un libro, quindi, da possedere e da vivere nella coerente mutevolezza delle sue prospettive, con lo spirito attento e amoroso di chi comunque consideri la letteratura una forma di autobiografia, un luogo privilegiato nel quale riflettere le proprie pulsioni intellettuali ed emotive.