Elogio del Pensiero Critico

 “Articolo di Rosaria Patrone tratto da L’Adelante, giornale della Giovane Sinistra di Bagnoli Irpino, uscito il 14 luglio 2019.

L’insegnamento di Gramsci

Per Gramsci “ogni lingua è una concezione del mondo integrale”, (A. Gramsci, Quaderni, Einaudi Torino, 2007) che comprende a sua volta innumerevoli lingue: vale a dire la concezione del mondo dei diversi parlanti, è il modo di pensare e di sentire di ciascuno di essi.

Per cui è facile comprendere quanto il problema della lingua possa essere allargato a livello politico: la lingua di ciascuna nazione rappresenta la concretizzazione, il risultato – il “portato”, dice Gramsci – delle vicende politiche, sociali e culturali che vi si svolgono.

Assistiamo, ormai da un ventennio, a un crescente riduzionismo linguistico, che è il segnale di un impoverimento culturale, la manifestazione di un preoccupante regredire collettivo dell’esercizio intellettuale a capire e giudicare consapevolmente.

Il depauperamento deciso e decisivo della nostra lingua e del nostro modo di parlare si evidenzia nel profluvio di tecnicismi, di anglicismi di cui spesso stentiamo a reperire il significato originario, smaniosi come siamo di accogliere parole straniere per sanare un malcelato senso di inferiorità che si caratterizza attraverso un provincialismo irritante. Subiamo, nel nostro modo di parlare, le conseguenze di quella semplificazione che sembra essere una delle panacee per rispondere alla crisi politico – culturale in cui ci dibattiamo.

Ignari dei suggerimenti che il secolo breve ci ha consegnati, pensiamo che limitare il vocabolario, essere acquiescenti alla logica dello Short Message System, dove la fanno da padrone brevità, velocità, modernità, semplificazione, possa essere l’unico modo per produrre comunicazione significativa. Se un tempo la lingua – padronanza di vocabolario, strutture grammaticali e sintattiche, capacità metalinguistiche, ecc. – ha rappresentato uno degli strumenti per determinare emancipazione, progresso, capacità di migliorarsi nella ricerca di obiettivi che non dovevano essere limitati dalla presenza di ostacoli di natura sociale ed economica, oggi, in preda, come siamo, al Pensiero Unico del Neoliberismo, che anziché l’emancipazione della persona ha come proprio obiettivo la formazione di consumatori acritici, abbiamo optato per l’omeostasi socio – culturale.

La visione del mondo che si configura attraverso la nostra lingua e il nostro modo di parlare – la falsa democrazia del web e dei social, la contrazione della capacità di lettura e di riflessione, la violazione dei tempi distesi dell’apprendimento, lo sdoganamento di volgarità, incultura, la noncuranza della norma, tanto linguistica, quanto giuridica – è la visione di un mondo asfittico, triste, imbarbarito, becero, volgare. Un mondo che affida gli strumenti di comando alle banche e in cui gli intellettuali tacciono, inaffidabili, pavidi e sconfitti. Un mondo che suggerisce che l’ascensore sociale non funzionerà in virtù di serietà, impegno, approfondimento, dedizione; ma di furbizia, apparenza, velocità. È un mondo SMART. In cui i poveri rimangono poveri e i ricchi sempre più ricchi.

A che serve dedicare ai primi spazio, tempo, energia, investimento per tentare di farli accedere alla ricchezza e alla complessità della cultura, se anche gli altri considerano che la cultura stessa sia una sorta di perdita di tempo non quantizzabile economicamente – e dunque non riconducibile a merce – se non attraverso il raggiungimento di competenze e abilità.

Per Antonio Gramsci la lingua è strumento di gestione del potere; una lingua semplificata, che non prevede sfumature, lessicalmente povera, normativamente elementare, spicciola, istantanea e immediata, una lingua che non riflette su se stessa, rappresenta un utilissimo sussidio  all’affermazione di un modello economicamente – e dunque politicamente –  egemone.

Lo aveva capito benissimo Pasolini: gli strumenti della decodifica del mondo devono essere necessariamente limitati, semplici e modellizzati per escludere dubbio, acquisizione di consapevolezza, cognizione di identità individuali e politiche. Solo nell’omologazione, una operazione così raffinata può riuscire.

La società  in cui viviamo appiattisce, riduce, chiude gli spazi della ricerca di senso ad un like, ad una presunta partecipazione nell’assenza, ad una antilingua di poche frasi. Riappropriarsi della lingua significa dunque riappropriarsi della propria sorte, dell’identità personale e collettiva.

Il ruolo della scuola è fondamentale per cercare di contrastare tentativi massificanti, semplificatori, alimentando la forza di non distrarsi mai dal mandato che la Costituzione Repubblicana ci ha consegnato: licenziare cittadini consapevoli.  Insegnare significa anche spingere a riflettere, indagare, cercare i nessi e i collegamenti che sottendono alla comunicazione e alla non comunicazione; esigere instancabilmente risposte possibili alle domande. Perché licenziare cittadini consapevoli significa anche individuare un profilo di cittadinanza laica incapace di adattarsi a verbi, dogmi, precetti, senza porsi domande significative.

Non bisogna abbassare la guardia, lasciando passare sotto silenzio i fenomeni intimidatori nei confronti della libertà di pensiero e di espressione. Se ciò avviene nella scuola è ben più grave. La libertà di insegnamento che lascia incensurata l’espressione di idee degli studenti è un principio   sacrosanto, anche quando gli studenti sono critici verso i politici del momento.

Il 27 gennaio di quest’anno gli studenti dell’istituto tecnico “Vittorio Emanuele III” di Palermo,  hanno prodotto un video in cui evidenziavano l’assonanza di alcune norme del “decreto sicurezza” voluto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, con quelle lesive dei diritti fondamentali della persona presenti nelle leggi razziste del nazismo e in quelle fasciste del 1938 e per quel video l’insegnante Rosa Maria Dell’Aria è stata sanzionata con un assurdo provvedimento disciplinare di sospensione dall’insegnamento per quindici giorni con stipendio dimezzato, per non aver vigilato (censurato) sui propri studenti.

Antonio Gramsci che non apprezzava l’acquiescenza al pensiero pedagogico unico e al Pensiero Unico tout court, la rassegnazione ad una condizione sempre più svilita del supremo principio della libertà di insegnamento e di pensiero ci avrebbe chiesto di non dimenticare chi e come dovremmo essere.