Voleva essere Anita Moorjani

Mario aveva capito con uno sguardo che per me era la prima volta, quando mi affacciai titubante sulla porta della stanza dove lui sedeva con altre persone, in attesa delle sacche di farmaco da farsi iniettare. Ero lì un po’ riluttante, forse non del tutto consapevole di avere un problema serio.

Poco più di un mese prima, una mattina di fine febbraio, ero uscita dal bagno piuttosto preoccupata, avevo sanguinato più del solito ed ero cosciente, ormai, di non poter più rimandare la visita dal medico.

La diagnosi di carcinoma di grado severo, esito della biopsia che il gastroenterologo, a cui il mio medico mi aveva indirizzata, aveva effettuato attraverso una indagine endoscopica, indispensabile a individuare l’anomalia che mi causava la perdita di sangue, mi aveva lasciata in una sorta di impassibilità, che non riuscivo a giustificare. Era sparita ogni traccia di quel terrore che mi aveva impedito di consultare, già alle prime avvisaglie di uno strano sanguinamento, il mio medico di famiglia, per paura che mi obbligasse a fare degli esami piuttosto invasivi.

Il foglio recante la diagnosi di cancro, ritirato in tempo di record, solo pochi giorni dopo il prelievo del campione da esaminare e letto e riletto, cozzava contro quella sorta di corazza che avevo imparato a vestire all’occorrenza, come un navigato trasformista, per fermarsi in superficie, prima della consapevolezza che mi contraddistingueva da sempre, e che mi aveva permesso, fino a quel momento e senza troppi patemi, di tollerare qualsiasi verità mi venisse svelata. Mi era parso, per molte ore dopo la terribile scoperta del tumore, che non fossi io ad avere sviluppato la massa maligna, che mi collocava sin da subito tra le persone speciali, di cui mi avrebbe parlato in dettaglio Mario, il vicino di poltrona, durante la mia prima chemioterapia. Infatti, senza avere il tempo di assimilare per poi  digerire la notizia di essere diventata una malata oncologica mi trovai catapultata in una serie di altre indagini, come TAC, RM, esami del sangue di ogni genere, per poter entrare a pieno titolo nel Centro Oncologico più vicino a casa mia e iniziare le terapie del caso.

Mario, in quel lunedì di inizio primavera, mi aveva vista ferma sulla porta, esitante sulla scelta della poltrona su cui sedere tra le due libere.  « Vieni, vieni, – mi disse risoluto – non aver paura. Come ti chiami?» Mentre gli sorridevo, notai che in quella stanza c’erano solo uomini, e mi diressi alla seduta alla sua sinistra. Salutai e mi presentai: « Ciao a tutti. Mi chiamo Sara, e per me è il primo giorno di chemio.» dissi con voce tremolante. Tutti fecero un cenno, qualcuno sorrise a sua volta e io tornai a guardare Mario; poteva essere mio figlio, tanto mi sembrò giovane, aveva profonde occhiaie scure e un pallore esagerato. «Siamo in questa camera perché preferiamo le poltrone ai letti delle altre stanze. Sei dei nostri per la stessa ragione?» mi domandò a sorpresa il ragazzo dal volto smunto. Ero lì per quella ragione e anche perché non avevo voglia di parlare e tra donne, si sa, si parla con facilità.

Ebbi la sensazione che tutti gli ospiti di quella stanza si conoscessero bene, lo capivo dalla familiarità dei loro discorsi, che esulavano da ciò che stava avvenendo in quel frangente, e che riguardavano piuttosto piccoli fatti o programmi di vita quotidiana, come la cucina, l’automobile desiderata, i figli. Mario si girava a tratti verso di me e mi osservava, così come si farebbe con una persona da dover controllare, per registrarne le reazioni. Poi prese a parlarmi, e rivolto anche a tutti i presenti, come per cercarne una muta approvazione, disse quasi con dolcezza: «Noi siamo speciali. Siamo passati dalla condizione di normalità, prima della malattia, a speciali – girò intorno lo sguardo, accompagnandolo con un gesto largo del braccio –. Tu non ti sei accorta di essere diventata speciale? Facci caso, non è forse cambiato il tuo modo di percepire il tempo, le persone, la natura, la malattia, la vita e la morte?» Fece una pausa, forse per ricaricare i polmoni, forse per dare enfasi a ciò che avrebbe detto in seguito e, senza guardarmi, come recitando un copione teatrale, rivolto a un pubblico silenzioso, che sembrava restare in attesa, continuò: «Ti sei di colpo arricchita, sensibilizzata, e questo non capita a tutti. Sei stata catapultata quasi senza accorgertene in questo mondo speciale, che cambia il punto di vista sui fatti peculiari della vita e della morte. E da questa trasformazione non se ne viene fuori più. Non si torna indietro nemmeno dopo la guarigione.» Sospirò e si guardò attorno, sembrava in dubbio sull’effetto delle sue parole, forse ebbe il sospetto di aver esagerato con quel suo tono quasi solenne. Mi parve tuttavia compiaciuto per avermi svelato una verità che io non conoscevo, seppure già parte della mia nuova condizione di vita, come d’altronde di quella di tutti i presenti.

Non seppi cosa dire, mi ripromisi di andare al fondo di quella congettura e cercai negli sguardi degli altri una sorta assenso, di approvazione.

Il giorno dopo ero in quella stessa stanza con tutte le persone che avevo conosciute il giorno prima. Mario era lì e  mi aveva portato un libro di Anita Moorjani, che aveva come sottotitolo: Viaggio dal cancro, alla premorte, alla guarigione. «Leggilo – mi disse, con l’aria di chi la sa lunga – ci troverai tanto e ti aiuterà. Tienilo, te lo regalo. Anche a me è stato regalato. Poi magari ne parleremo insieme.»

Otto cicli di chemio mi strapazzarono non poco. I quattro giorni al mese da trascorrere in quella stanza di ospedale per la terapia mi furono spostati, dal lunedì e martedì di quella prima volta, al mercoledì e giovedì dei mesi successivi. Non incontrai più Mario, ma rividi occasionalmente qualcun altro di loro.

Ero ormai alla fine del percorso impegnativo e destabilizzante che è la chemioterapia, quando appresi, quasi per caso, che Mario non ce l’aveva fatta.

Erano passati poco meno di otto mesi da quando lo avevo conosciuto. Avevo saputo anche che aveva solo 35 anni, faceva il parrucchiere e da cinque anni, a periodi stabiliti, faceva la chemio. Non era operabile e perciò credo fosse al corrente di correre qualche rischio in più rispetto a quelli operabili: forse sapeva da tempo che non ce l’avrebbe fatta.

Mario non aveva avuto la possibilità di tornare indietro, di scegliere di farlo, come invece era stato per Anita Moorjani? O aveva deciso lui stesso di non ritornare, di andarsene per sempre?

Chissà, era giunto, forse, a non ne poterne proprio più di quella vita speciale che gli era toccata.