Ti cucino un racconto

 

L’insalata della memoria

 

«Ehi piccola, sali su, che la mamma ti sta aspettando per preparare l’insalata di tartufo insieme a te.»

La voce del mio papà, a differenza della sua immagine sempre più offuscata, mi arriva nitida, dopo aver attraversato indenne quel meandro nebbioso ubicato da qualche parte del mio cervello, che ancora custodisce i ricordi di me bambina.

«Ha cominciato senza di me?» gli chiedevo mentre raccattavo sul largo scalino davanti casa il mio bambolotto di gomma che, dopo un accidentale tonfo nel camino di casa, mostrava una vistosa scottatura a un piede.

Avevo deciso di lasciarla a vista solo quando, dopo averla medicata più e più giorni, avevo constatato che non si rimarginava.

E, immaginando che mia sorella, più grande di me di tre anni, fosse già seduta al tavolo della cucina, afferravo il sacchetto dove avevo riposto in fretta il bambolotto, la sua culletta e una copertina, e scappavo su per le scale, salutando con un gesto distratto della mano mio padre che stava uscendo.

La preparo ancora, l’insalata di tartufo nero, seguendo la ricetta di famiglia, che è poi, con qualche piccola variazione, la stessa in tutta la zona, ricca del famoso tubero.

Non succede spesso, però, che mi cimenti in questa che può sembrare una ricetta come tante altre: lo faccio a Natale, talvolta a Pasqua e in qualche altra rara occasione, e sempre i ricordi fluiscono incontrollati, mentre maneggio con cura la materia prima, che ha segnato il cammino dalla mia infanzia alla giovinezza. Continua a leggere

Stazione dei carabinieri

Stazione dei carabinieri

31 Agosto 2016

Arrivata davanti alla villetta cinta da un’alta inferriata con gli apici a mo’ di frecce appuntite, ricoperte da filo spinato, fui assalita da una sorta di timore reverenziale, del tutto inaspettato.

Prima di allora quel posto non mi aveva mai veramente impressionata, forse perché, oltre il cancello, si vedeva solo un’abitazione anonima, che deludeva le aspettative generate dall’imponente cancellata.

Ero passata da quelle parti innumerevoli volte, domandandomi un po’ incredula come mai, quella costruzione senza pretese, fosse stata convertita a una destinazione d’uso così speciale, senza averne la dignità.

Mentre indugiavo con lo sguardo sulla scritta SUONARE, posta subito sotto l’insegna STAZIONE dei CARABINIERI di… un’ansia sottile s’insinuò sotto la pelle.

Mi avevano convocato senza accennarmene la ragione.

E, benché non avessi smesso per tutto il tempo di cercarne una plausibile, non ero riuscita a trovarne nessuna, per quanto fantasiosa potesse essere.

Pertanto, cosa avrei mai dovuto temere?

Suonai un po’ esitante e dopo alcuni interminabili secondi, una voce al citofono mi pregò di attendere.

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Il coraggio di prendere quel treno

Quando, quella mattina, infilai in fretta poche cose in una borsa e a piedi raggiunsi la stazione della metro più vicina, neppure mi resi conto della svolta che stavo dando alla mia vita. 

Non ero del tutto consapevole di essere in preda a una sorta di rivoluzione interiore, a seguito dell’incontrollato flusso di pensiero che mi dominava e che, per la prima volta, mi portava a credere di non essere io quella sbagliata.

Non so dire con precisione quando, ma fu in uno dei momenti insonni di quella lunga notte che decisi di approfittare di essere sola in casa, per mettere tutta la distanza possibile tra me e lui.

Un’opportunità capitata di rado in passato. Mai, però, prima di allora, l’avevo sfruttata anche solo per un caffè con un’amica, figurarsi arrivare a pensare di dileguarmi.

Il mio carceriere, che era partito per lavoro la sera prima, mi concedeva due giorni di tregua dal controllo maniacale che esercitava costantemente su di me, e io, non so come, avevo trovato il coraggio di agire in fretta.

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La montagna di fronte di Rosaria Patrone

Ogni mattina scosto le tende, sapendo che la montagna di fronte è lì imponente, solenne, quasi incombente.  

  Da qualche giorno, però, mentre indugio dietro al vetro per intercettare lungo le sue coste le avvisaglie della primavera, fulmineo si insinua il pensiero che presto andrò via da qui, ed è allora che i suoi contorni, come per incanto, sfumano sotto una nebbia spessa, calata dalla vetta.   

  Resto a fissare quell’assenza come farebbe un pittore che, cosparsa con la cementite la tela di un suo dipinto, cerca di rintracciare sulla trama sbiancata la memoria di una vecchia pennellata, da cui ripartire per un progetto nuovo.   

  Che non avrei potuto portarla con me, lo avevo sempre saputo, come sapevo che prima o poi me ne sarei andata da qui, dove ero arrivata cinque anni prima, dal centro storico del paese.

   L’appartamento era nuovo, lo avevo arredato con gusto, ma il pezzo forte della casa restava la montagna di fronte.

  Era stata testimone del sentimento di solitudine che aveva preso residenza tra queste mura con il mio arrivo, e che neppure il rientro a fine settimana alterni del mio compagno trasfertista era riuscito a mitigare.

  Credo abbia capito quasi subito, osservando la mia quotidianità da una prospettiva privilegiata, quale fragilità insidiasse la mia vita di coppia.

  E ora mi rimprovera per aver lasciato che un’inerzia ingiustificata si sostituisse alla mia ben nota determinazione, impedendomi di intercettarla in tempo, quella fragilità. Continua a leggere

‘Il gene maledetto’ della fibrosi cistica raccontato in un libro

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Una mutazione di un pezzetto di Dna, il gene CF che codifica per una proteina che funziona da canale per il cloro, provoca la patologia di cui è affetto Lorenzo: la fibrosi cisticaA raccontare del suo ‘gene maledetto’ e della malattia che lo ha tormentato per tutta la vita e lo ha ucciso a soli 27 anni, è lo stesso giovane protagonista, e lo fa da morto. “Mi chiamo Lorenzo, anzi mi chiamavo: sono morto a soli 27 anni di fibrosi cistica, una malattia ereditaria che non perdona”, si legge nell’incipit di ‘Il gene maledetto’ (Intrecci Edizioni), firmato da Rosaria Patrone.

“È lui stesso – spiega Patrone – a raccontarci della sua fame d’aria, dei suoi polmoni ostruiti da muco denso, che solo una sfiancante fisioterapia riesce a liberare e di lunghe degenze in ospedale. Ci racconta anche delle pillole che ingoia più volte al giorno per sopperire a una grave insufficienza pancreatica e di quelle che prende per contenere l’infezione batterica polmonare cronica che lo tormenta da sempre: due manifestazioni della malattia che ne mostrano tutta la complessità e la gravità”.

Nel romanzo emergono altre figure: Amin, studente di medicina, arrivato dall’Uganda e assunto nella ditta di costruzioni della famiglia di Lorenzo, Federico, che cerca di compensare con la sua costante presenza la distanza insuperabile tra Lorenzo e il padre, e infine Antonio, un trans incontrato all’università che si fa chiamare Teresa. Lorenzo si lascia incuriosire dal complicato rapporto che intreccia le vite dei suoi amici, curiosità che lo porterà a scoprire una insospettabile verità.

Nel frattempo Lorenzo vive due importanti storie d’amore: la prima con Betty, malata come lui di fibrosi cistica, e poi con Maria, sua infermiera a cui non avrà mai il coraggio di rivelare i suoi sentimenti. E proprio il profumo di Maria accompagna Lorenzo negli ultimi istanti di vita, prima che il gene maledetto porti a termine “la sua missione”, come racconta Lorenzo.

“Scrivere della patologia di Lorenzo, della sua vita scandita da tante piccole e grandi necessità per tenere sotto controllo una malattia fortemente invalidante, da lasciare poco spazio e poche forze a tutte le altre attività che un ragazzo sano compie ogni giorno, mi è sembrato necessario per dare forma e corpo alla traccia indelebile che Vincenzo, nato e cresciuto a pochi passi da casa mia, ha lasciato nella mia mente – racconta Patrone, nata a Bagnoli Irpino (Avellino) e laureata in Scienze biologiche – Lui portava scritta nel Dna la mutazione che ha segnato tutta la sua esistenza”.

“Vincenzo – continua l’autrice – ha affrontato con coraggio il calvario della sua patologia e ha coltivato nel corso degli anni molte amicizie. E’ morto a 25 anni, prima del trapianto bilaterale dei polmoni che gli avrebbe allungato la vita di alcuni anni. Nel Gene Maledetto, invece, Lorenzo si spegne a 27 anni, nonostante si sia sottoposto a trapianto dei polmoni”. La sua è una storia segnata da una ‘maledizione’ e dalla diversità, ma ricca di incontri ed emozioni, legami, sogni e addii.

Recensione di Anna Lattanzi di Mangialibri

Fonte www.mangialibri.com

ARTICOLO DI: Anna Lattanzi

IL GENE MALEDETTO

“Mi chiamo Lorenzo, anzi mi chiamavo: sono morto a soli 27 anni di fibrosi cistica, una malattia ereditaria che non perdona”. I medici definiscono la sconcertante diagnosi pochi mesi dopo la sua nascita e la disperazione dei genitori, in particolare della mamma, non ha luoghi e non ha confini. Lorenzo ne comprende la gravità solo nell’età adolescenziale, quando assiste alla morte di alcuni compagni di ospedale, cosa che non lascia più spazio a dubbi. Uno degli avvenimenti o circostanze che più lo lascia perplesso è la reazione di suo padre di fronte alla realtà. Non può aver trasmesso lui la malattia a suo figlio, perché nella sua famiglia nessuno ha mai contratto un male simile a quello. Non serve a nulla anche la spiegazione dei medici “…una patologia genetica autosomica recessiva” e questo significa che i suoi genitori gli hanno trasmesso un allele malato cadauno. Niente! Impossibile! Il suo DNA non è assolutamente malato. Crede forse che da lui ci si debba attendere solo la perfezione? Questi pensieri o convincimenti lo inducono a vivere l’iter della malattia di suo figlio come se la cosa fosse a lui estranea e probabilmente anche la sua morte scivola via come se fosse quella di un conoscente, preso com’è nelle sue personali disquisizioni riguardo quegli inspiegabili accadimenti e sconvolgimenti createsi nel corpo di suo figlio. Come ha fatto ad approdare quel gene malato? Sarà mica colpa del caso? Oppure colpa del destino o ancora meglio dell’inquinamento cosmico che ormai attanaglia le nostre vite? La reazione della sua mamma, invece, è tutt’altra. 

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25 novembre

Sulla collina

Nell’ultimo loculo della fila, Rosa ci stava ormai da quarantadue anni. Quello subito prima del suo, era rimasto vuoto per un decennio. Era da tutto quel tempo che non parlava più con nessuno e ora che nella nicchia accanto ci avevano tumulato Laura, non aveva esitato un momento a subissarla di domande: «Come è successo? Sei così giovane. È stato un incidente o ti drogavi? Scusami, non volevo insinuare nulla, magari sei una brava ragazza e hai avuto la sfortuna di ammalarti gravemente.»

«Sei completamente fuori strada. Il mio ex fidanzato, che non sopportava di essere diventato un ex, mi ha stuprata, uccisa, fatta a pezzi e gettata in un pozzo» aveva risposto un po’ infastidita Laura.

«Vorresti farmi credere che ti è andata peggio di me? Pensa che mio marito, convinto che lo tradissi con uno, che manco conoscevo, mi ha lapidata.» Continua a leggere